Re Davide

Prologo

 

“Aggiungi un posto a tavola”:

no, non è stata affatto questa, la fine della favola

ché favola non era, né in musica commedia

non era una finzione, ma una storia vera

di lacrime e di sangue, autentica tragedia!

 

 

“Aggiungi un posto a tavola”:

avrei aggiunto certamente, una sedia o uno sgabello

ma con le gambe, sotto la seduta

e non, com’era scritto nelle stelle

con due ruote dietro, e davanti, due rotelle!

Avrai amato certamente, un altro paio d’occhi

ma con la luce accesa, dietro il loro vetro

invece come un lume, senza lampadina

il tuo sguardo, sarebbe stato tetro…

Saresti stato chiesa, cupola la testa

ma senza protezione, dai rigori dell’inverno

ché la cupola, l’errore, l’avrebbe fatta aperta!

La gioia della gente, invece di far festa

osservando sbigottita, quel disastro, sarebbe stata mesta.

 

Il giorno in cui impietosa, è stata pronunciata la condanna

s’è aperto il suolo, sul quale mi poggiavo

il cielo, m’è crollato addosso

e in quel precipitare, una voce in me ha affermato:

“Lasciare che ti schianti? Davvero, io non posso!

Il cielo è inconsistente, e poi, così lontano

raggiungi pure, un suolo un po’ più in basso

che non morrai, finendoci più piano…”;

quindi tra le mani, ripetendo le medesime battute

nero e insanguinato m’ha lasciato, un paracadute.

Un istante e in me, la scelta è maturata:

perché durasse ancora, la mia vita

perché io diventassi, un albero risorto

la vita tua sarebbe, in un attimo finita

tu, germoglio malformato, saresti presto morto!

 

Quanto ragionare su quel nero

per convincersi che in fondo, fosse bianco;

quante lacrime a tentare di levare

un rosso, che se mi convincevo, faceva più contrasto;

quante notti, al bordo del mio letto

sdraiato spalle a lei, in cui stavi germogliando

vi sentivo ancora troppo accanto:

allora, dormivo ad ogni costo

in un buio che di me, faceva il bimbo

e di te, faceva un mostro!

 

Quando l’ora è giunta, di salvar me stesso

col bene per pretesto, della mia famiglia

non sono stato più Giovanni, ai piedi della croce

ma milite romano, e lasciata la mano di Maria

per finirti, ancora addormentato, mio Gesù bambino

ho afferrato la lancia di Longino…

Non so, se avresti mai parlato

comunque, non te ne ho dato il tempo

e mai saprò, se un dì potendo, avresti urlato:

“Perdona loro, ché non sanno quel che fanno “

o: “Dio mio, Dio mio, perché m’hai abbandonato?!”.

So che di male, ne avrei fatto tanto

se non fossi diventato, a forza un assassino

poiché la Fede, chiede di volare

e invece che di penne, ho le ali ricoperte di piumino;

per te ho implorato, con questa fede in bilico:

“Nelle tue mani, Padre, consegno io il suo spirito…”.

 

Altro, non voglio rammentare, dell’ora del martirio

avvenuto come tanti, nel campo di sterminio

dove salvano le vite, svuotando le matrioske

e si celano per questo, sotto l’ospedale;

altro, non voglio rammentare

tranne al mio ritorno, l’abbraccio vigoroso di mio padre:

un grazie a lui, e un grazie anche alla mamma

che una volta ancora, mi sono stati accanto

in quel che è stato, fino adesso, il mio più lungo pianto.

 

Addio per sempre, carrozzine

addio poppate, pannolini, prime pappe

addio lettini, e dolci ninne nanne…

chissà se il male tuo, tolti me li avrebbe, in ogni caso.

Ora vivo stanco, confuso, insanguinato

assediato dai miei figli, e dalla nostalgia

a chiedermi ragione, del diguino, dal pane consacrato.

Ora vivo immoto, eppur commosso

ché di luce ciascun raggio, a questo mondo

scioglie il ghiaccio molle, se mi trafigge il corpo

così al delta il pianto corre, e riempie gli occhi, sino all’orlo;

intanto monta la paura, ché morso dopo morso

della vita il tempo, mi sta lasciando, l’osso!

 

Di te mi resta un segno, sopra un bastoncino

e due sfocate foto, in bianco e nero, di suoni silenziosi

a rendere immortale il tuo silenzio

urlato a chi ti ha ucciso, senz’assenso.

Di te mi resta un nome, pensato senza dirlo

di un re che tutto solo, uccise il suo Golia

ma contro il tuo gigante, la vittoria, per te è stata un’utopia…

 

Talvolta, ho comunque l’illusione

che come goccia d’acqua, fermata da una foglia

durante la caduta

che invece d’arrestarsi, è scorsa sino all’orlo

e proprio accanto al suolo, posto sotto quella foglia

proprio lì è piovuta

così, col nome di quel re, e un corpo da bambino

tu mi sia piovuto accanto, sano e salvo, nel giardino del vicino.

 

Talvolta, ho l’orrenda sensazione

che vedendomi angosciato, per la tua venuta

esclusa dalla mia programmazione

ti sia inconsciamente suicidato

forzando chi tesseva, la tua tela

a lasciarti incompiuto, dietro il capo!

 

Di te mi resta ancora, una visione:

un prato azzurro, ed ogni stella, un seggiolone

in un paese dei balocchi, senza punizioni

dove i bimbi morti, sono re, sazi di regali

e non d’asino le orecchie, gli crescono sul capo

ma sulle spalle nude, d’angelo, le ali…

 

Di te mi resta ancora, una visione:

io in ginocchio innanzi a te, sul tuo trono seggiolone

con la gola che m’esplode, e non trova, né la voce né parole;

gli occhi bassi, due bicchieri troppo pieni

a tratti s’alzano un istante, come un moribondo in paradiso

che veder vorrebbe meglio, prima di morire

e di lasciar tenta il suo letto, tra il pianto ed un sorriso;

tu, gli occhi luminosi, e la testa senza falle

hai un sonaglio a far da scettro, in una mano

e per trafiggermi il costato, nell’altra tieni stretta la tua spada

ma è di legno, e ha la punta arrotondata.

 

Di te mi resta ancora, una visione:

tu che scendi risoluto, dal tuo trono seggiolone

con la spada a me t’accosti, ed ecco che m’accade!

Al tocco della lama, m’accade d’ascoltare

come un suono di campane, festoso, durante un temporale

la voce tua di bimbo, re dell’aldilà:

“Di cuore ti perdono, e non mio cavaliere

col bene che ti voglio, ti nomino… papà!”.

 

 

Epilogo

 

Poi, con lo sguardo come il cielo, un uomo s’avvicina

ha un sorriso così dolce, sulla barba bipartita…

fa un gesto con la mano, solo un gesto, e per magia

lo scettro, che hai posato, cambia forma e si fa vivo

diventando una bambina: proprio quella mia;

dopo sta alla spada, lasciata anch’essa in terra

a cedere il suo posto, stavolta ad un bambino:

proprio quel figliolo, che vinto non ho in guerra;

quindi, te ne torni, sul trono seggiolone

le manine nelle mani, dei due altri miei bambini

e mentre mi domando, del tuo gesto la ragione

muta pure quello, e compare la tua mamma

non più come una volta, strumento di condanna

ma da terra al cielo ascesa, ora, come manna:

Gianluca ed Alessandra, Davide seduto… ma su Anna

a formare tutti assieme, un volto dalla barba bipartita

perché adesso finalmente, adesso sì, somiglia

al volto di quell’uomo, intanto che m’osserva, più Felice

tuffarmi dentro voi… l’ottava meraviglia…

tuffarmi dentro voi… la sacra… mia… famiglia.

Informazioni su feliceconti

Sono un essere umano (credo che questa, per quanto scontata, sia la cosa che più d'ogni altra, meriti menzione), ed anche se laureato in biologia, sono appassionato di poesia da sempre (ho cominciato a comporre fin da bambino). Ho partecipato a vari concorsi, ed a titolo d'esempio posso citare: Fonopoli parole in movimento, Il Club degli autori, Anguillara Sabazia città d'arte, Il giro d'Italia delle poesie in cornice (XII posto nell'edizione 2003). Oltre a pubblicare me stesso, nella vita di tutti i giorni, ho ottenuto la pubblicazione di mie opere, nelle antologie dei concorsi ai quali ho partecipato, ed in altre raccolte, quali l'Antologia del ricordo, curata dall'Associazione Culturale Pragmata. Ben lungi dal volermi dare delle arie (d'altronde, i piazzamenti nei concorsi, e penserà qualcuno, la "semplicità" delle poesie, non mi spingono a farlo), ho scritto queste "stanche" righe, solo per aiutarvi a prendermi un po' sul serio. Non compongo sempre per un impulso irrefrenabile, a volte piuttosto mi comporto da pittore, col foglio per tela, e la penna per pennello, e ritraggo un paesaggio, ma del mio mondo interiore; mi capita anche, lo confesso, d'aggiungervi qualcosa: l'anelito della cima di un monte, l'allegria di un ruscello, la calma di un albero, ed il bello è che spesso, dopo qualche tempo, finisco col trovarli davvero, nella mia anima. Scrivo della parte migliore di me, costruendo spero, per chi ha la pazienza di leggermi, non un muro d'incomprensione, ma una galleria, nella quale addentrarsi mano a mano, osservando gli squarci da cui filtra il sole, e quel barlume di speranza, laggiù in fondo, quindi se volete, leggete le poesie prima di getto, come a pescare con una rete a maglie larghe, e poi via via con più attenzione, passando a reti dalle maglie più sottili. 'Salite e discese', è il titolo che ho dato a questo spazio, e credo si spieghi un po' da solo: si riferisce alla vita d'ogni uomo, quando crede di salire, ed invece perde quota, o quando accade il suo contrario, alla vita d'ogni uomo, quando cammina a marcia indietro, guardando la discesa, perché sente che così fatica meno, o guardando la salita, perché crede d'essere in ascesa; si riferisce al fatto, che tutti cerchiamo una maniera, di salire scendendo, tutti cerchiamo qualcosa, che della parabola della nostra vita, sappia mutare in positivo... il segno! Un avvertimento sul modo di leggere le mie poesie: al termine di un verso, fate una pausa, anche se non c'è punteggiatura. Bene, per vostra fortuna ho finito la mia introduzione, quindi, grazie per la pazienza d'essere arrivati fino in fondo, anzi... grazie d'esistere!
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